di Giorgio Savastano
L’aspetto che si vuole mettere in luce nel presente articolo, è relativo al concetto odierno di discarica sigillata (che gli americani chiamano “dry tomb”, per noi provinciali “tomba secca”). Tale concetto deriva dal D.Lgs n. 36 del 2003, e cioè l’attuale normativa italiana relativa alla progettazione e gestione delle discariche. Quello che viene imposto è il principio di minimizzazione delle infiltrazione delle acque meteoriche nel corpo rifiuti, al fine di ridurre al minimo la produzione di percolato. Tale obiettivo, senza scendere troppo nei dettagli tecnici, viene prescritto dalla normativa imponendo la realizzazione della copertura impermeabile finale della discarica. Quella che potrebbe sembrare una norma di buon senso, cioè il principio secondo il quale isolare completamente l’ammasso di rifiuti dagli agenti atmosferici esterni sia la strada maestra per evitare contaminazioni nel suolo e nelle falde, si rivela in realtà il vero punto debole delle discariche “moderne”. Per capire a fondo tale affermazione, che potrebbe sembrare contraddittoria, bisogna fare un breve accenno al principio di funzionamento di una discarica controllata. Bisogna per prima cosa tenere a mente che per infiltrazione di acque meteorica debba intendersi solamente l’ingresso di acqua nel comparto di rifiuti e non la fuoriuscita di liquido dalla discarica, che deve essere sempre scongiurato. E’ proprio in funzione di tale obiettivo di minimizzazione della fuoriuscita di percolato che viene mossa questa critica.
Immaginiamo l’attuale discarica controllata come un sacchetto di plastica impermeabile nel quale conferire i rifiuti (fase di gestione operativa della discarica). Una volta riempito il sacchetto, la normativa italiana impone al gestore della discarica/sacchetto di sigillare tale involucro e di controllare per un certo numero di anni che questo non si rompa, attuando gli opportuni controlli sul sistema di impermeabilizzazione e gestendo in maniera attiva la rimozione del percolato e del biogas. Durante questa seconda fase, denominata fase post operativa attiva, il gestore non ho dei guadagni dall’esercizio della discarica, quindi per fronteggiare i costi connessi a questo periodo è necessario che accantoni nella fase economicamente produttiva dei fondi ad hoc. Tali costi vanno quindi riversati nella tariffa di smaltimento dei rifiuti.
La durata della fase di post gestione attiva è fissata, in base alle indicazioni delle normative europee e nazionali, a 30 anni dalla chiusura della discarica. La determinazione di un semplice criterio temporale, comporta il fatto che a 30 anni e un giorno il gestore abbandoni a se stessa la discarica.
Che succederà ora al nostro sacchetto di rifiuti ? Siamo sicuri che il contenuto di tale sacchetto non sia più pericoloso per l’ambiente ? E’ proprio relativamente a questi interrogativi che viene criticato il concetto sopracitato di discarica sigillata, imposto dalla normativa. Ad oggi succede che in Italia una gran parte degli interventi di bonifica di siti contaminati riguardi vecchie discariche di rifiuti solidi urbani. I costi di tali interventi ricadono interamente sulla collettività, in quanto non sono più coperti dalla tassa dei rifiuti pagata al gestore. Dobbiamo inoltre renderci conto che i vari componenti della discarica, che dovrebbero garantire il totale isolamento dei rifiuti dalla matrice ambientale esterna, sono destinati ad un naturale scadimento. Questo principio è tenuto sempre da conto in fase di progettazione, considerando assurda la pretesa che queste opere durino in eterno. Quello che accade, nel caso di una “dry tomb”, è che isolando i nostri rifiuti dalle infiltrazioni meteoriche non abbiamo permesso la degradazione completa dei rifiuti, che hanno conservato gran parte del loro carico inquinante. Questa situazione è ottimale per il gestore della discarica, il quale si troverà a dover fronteggiare una produzione di percolato minore rispetto a quella auspicabile. Questa situazione, come abbiamo capito, non avvantaggia la collettività, la quale vedrà solamente traslato nel tempo il problema relativo alle emissioni, dovendo poi pagare un intervento di risanamento ambientale.
Questo problema va sommato al fatto che il gestore, per determinare la durata della fase di post chiusura debba semplicemente rispettare un criterio temporale fissato a 30 anni, indipendentemente dalla pericolosità residua del rifiuto. Questa combinazione di fattore fa si che il gestore non sia incentivato a lasciare un rifiuto stabilizzato, ma anzi sia tutelato dalla legge nel cercare il più possibile di non far entrare a contatto i rifiuti con l’acqua meteorica, minimizzando al massimo il processo di degradazione del rifiuto.
La soluzione non è realizzare una discarica a cielo aperto, permettendo all’acqua piovana di entrare incontrollatamente, in quanto sarebbe impossibile intercettare correttamente tutto il percolato che si genererebbe. Bisognerebbe però ripensare il concetto di barriera superficiale, aprendosi all’idea che una quota parte di infiltrazione meteorica nel comparto rifiuti è funzionale al raggiungimento degli obiettivi di stabilizzazione del rifiuto. Per di più i costi connessi alla realizzazione di sistemi di raccolta e gestione del percolato più sofisticati degli attuali, sarebbero pienamente ripagati dai costi risparmiati dalla bonifica del sito.
Inoltre sarebbe opportuno fissare la durata della fase di post gestione della discarica sulla base del raggiungimento di obiettivi di tutela ambientale, che posso essere acquisiti anche prima degli attuali 30 anni. Questo provvedimento incentiverebbe i gestori a mettere in campo tecnologie di gestione più sofisticate, in modo da ammortizzare i costi di gestione per tempi più brevi, con relativi vantaggi anche per la collettività.
Articolo pubblicato sulla rivista scientifica online TuttoAmbiente.
ufficio tecnico PDS
ARTICOLO MOLTO INTERESSANTE.