Il Parlamento europeo a marzo ha votato la Direttiva Green Claims che mette limiti alle dichiarazioni “ecologiche”, spesso fuorvianti, utilizzate da una grande quantità di aziende in UE. Secondo la Commissione europea, che aveva presentato la proposta di direttiva, nel 2020 circa il 53,3% delle informazioni su ambiente e clima presenti nelle etichette (su un ampio campione di prodotti) era ingannevole. Mentre il 40% era addirittura privo di fondamento. Di seguito alcuni dei temi affrontati dalla direttiva Green Claims approvata a Strasburgo.
Un’impresa che presenta delle affermazioni sulle prestazioni ambientali di un prodotto, sarà tenuta a fornire prove scientifiche sulla loro veridicità. L’intero ciclo di vita del prodotto dovrà essere preso in considerazione. Le dichiarazioni saranno verificate da soggetti terzi indipendenti, individuati dai Paesi membri.
Le prove della veridicità scientifica delle affermazioni dovranno essere fornite prima di mettere in commercio il prodotto. Dichiarazioni e relative prove dovranno essere valutate nell’arco di 30 giorni, sebbene nei casi più semplici la verifica potrebbe essere più rapida.
Inoltre, le dichiarazioni “eco” non potranno basarsi esclusivamente sugli schemi di compensazione delle emissioni di CO2. I crediti di carbonio, inoltre, come stabilito dall’accordo Carbon Removals Certification Framework, devono essere certificati.
Le imprese che usano dichiarazioni ambientali non comprovate vanno incontro a multe pari ad almeno il 4% delle entrate annuali, o all’esclusione da appalti pubblici o sussidi per un periodo massimo di 12 mesi.
A fronte di una maggiore sensibilità dei consumatori, dunque, la direttiva Green Claims ha introdotto norme affinché le imprese abbiano strumenti per adottare pratiche autentiche di sostenibilità. Si vedrà dopo le elezioni europee di giugno come il dossier contro il greenwashing delle aziende andrà avanti.
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