L’incidente di Bhopal, in India, avvenuto nella notte tra il 2 e 3 dicembre 1984, è forse il più grande disastro ambientale della storia. Dallo stabilimento locale della Union Carbide India Limited, che produceva il Sevin, sostanza chimica usata principalmente come insetticida, fuoriuscirono 42 tonnellate di isocianato di metile. Il gas tossico colpì la popolazione di Bhopal, uccidendo 8mila persone nei primi tre mesi, che sono diventate, con gli anni, 25mila. Mentre si stima che siano mezzo milione le persone menomate.
Le conseguenze del disastro sono ancora evidenti, perché l’area non è stata mai sottoposta a bonifica e i rifiuti dello stabilimento abbandonato hanno inquinato le falde acquifere. La Union Carbide, acquisita nel frattempo dalla seconda maggiore multinazionale chimica del mondo, la Dow Chemical, non ha pagato per l’incidente, patteggiando un risarcimento minimo con il governo indiano nel 1989: 500 dollari a persona. Mentre la crisi ambientale ha causato e continua a causare una grave crisi sanitaria.
I sopravvissuti, supportati da ambientalisti e volontari a livello globale, si battono per ottenere giustizia attraverso l‘International Campaign for Justice in Bhopal (ICJB). L’associazione chiede un giusto riconoscimento dei crimini ambientali commessi dalle imprese coinvolte. Finora, i tribunali degli Stati Uniti hanno disatteso le richieste delle vittime della fuga di gas e della contaminazione ambientale in corso. Una battaglia che riguarda, non solo simbolicamente, anche tante altre comunità nel mondo, che subiscono l’impatto dell’inquinamento industriale.
Foto: quel che resta dell’impianto di Bhopal (Wikimedia Commons)
Rispondi